La missione del prete in una chiesa chiamata a testimoniare la carità

Un’intelligenza che viene dall’amore

Nella mia vita ho sempre capito poco e quando non ho capito niente, il Signore è riuscito a fare qualcosa; quando io credevo di capire ho sempre fatto fiasco ed anche il Signore ha fatto fiasco con me; sono quarantun anni che sono sacerdote ed attraverso gli anni ho maturato questo convincimento.

Mi ha colpito molto il tema che voi mi avete affidato da trattare. Io mi sono convinto, anche stando in seminario per quindici anni, che i sacerdoti hanno dentro di loro una ricchezza enorme, solo che molte volte mancano le occasioni per poterla manifestare.

Ovunque io vada, negli incontri tra sacerdoti, trovo delle originalità stupende: lo Spirito Santo lavora meravigliosamente; vivono nascosti, ma hanno delle ricchezze ed io credo di avere molto da imparare da tutti, sacerdoti giovani ed anziani. Mi ha fatto meditare l’argomento di questo incontro: «La missione del prete in una Chiesa chiamata a vivere la carità». La Chiesa tutta intera è chiamata a vivere la carità, la Chiesa stessa è carità, è famiglia, gregge: espressioni che indicano una comunione profonda.

Qual è dunque la missione di un prete nella Chiesa chiamata a vivere la carità? Io ho trovato sempre molto forte quello che dice Gesù nel capitolo decimo del Vangelo di Giovanni: «Io conosco le mie pecorelle e le mie pecorelle conoscono me». Quelle parole contengono il segreto del modo di rapportarsi con gli uomini ed in particolare con i battezzati: c’è un’intelligenza che viene dall’amore.

Io credo che tante cose si capiscono con l’intelligenza, ma se non c’è amore, quell’intelligenza è più scienza che sapienza: la sapienza viene dall’amore; cioè certe cose si capiscono solo se si ama e se non si ama non si capiscono.
Il prete, specialista della carità

Il primo problema di ogni prete, il problema fondamentale, è la fede, ma in ordine operativo, come dice bene S. Agostino, il primo problema è l’amore; è perdersi per generare vita. Uno per te esiste nella misura in cui tu lo conosci; per quanto tu non lo conosci, lui non esiste. Tu per gli altri esisti nella misura in cui tu sei conosciuto; nella misura in cui tu non sei conosciuto non esisti. Ogni uomo è dono; ogni uomo ha in sé potenzialità enormi, ogni uomo è una parola irripetibile di Dio, pertanto originale e necessaria (necessità voluta da Dio).

Perciò ogni uomo ha una sua missione nella storia, ha un compito; ogni uomo è un protagonista della storia, quindi è indispensabile. L’uomo è un dono, ma questo dono non è tale fino a quando non c’è qualcuno che lo accolga, e il primo che deve accogliere tutto come dono è il pastore del gregge, lui che presiede alla carità. Se tutta la Chiesa è carità, è amore, il prete è lo specialista della carità, dell’amore. Questa necessità l’ho constatata facendo esperienza, in particolare nel mondo della tossicodipendenza e dell’handicap.

Credo che al prete perdonino tante colpe; la gente però non riesce a perdonargli quando non ama. Ritengo che su una cosa non si possa mai fingere, nonostante tutte le maschere che noi possiamo avere, ed è sull’amore, perché l’altro sente se tu non lo ami; e se l’amore non l’hai dentro di te, tutt’al più ti comporterai con il galateo di Mons. Della Casa che alla fine, però, fa vomitare. Se tu invece ami non hai bisogno di galateo, perché il galateo verrà fuori dall’amore.

Credo che la conversione nostra stia nel perdersi. Il problema è mantenerci in quell’amore e, per potercisi mante­nere, bisogna lasciarsi attirare da Cristo.
Avere l’altro nel cuore

Un altro stimolo molto importante mi è fornito dalla prima lettera ai Tessalonicesi capitolo se­condo: «Io avrei voluto darvi non solo il Vangelo, ma anche la vita perché mi siete divenuti cari».

A me è capitato spesso di sbrigare le persone come pratiche sociali, di difendermi da loro e di liberarmi anche senza far brutta figura, sembrando anche un prete buono: ognuno di noi ha una sua figura da difendere e questo, forse, è anche un mezzo per sopravvivere a livello psicologico.

S. Paolo dice: «Tu mi sei divenuto caro». Quando l’altro ti è divenuto caro, allora tu capisci che ti senti cieco in chi è cieco, ma più di tutto ti senti buttato via con chi è cieco perché cieco: ti senti affamato nello stomaco di chi ha fame, ti senti disprezzato in chi è disprezzato, ti senti reagire dentro, di fronte a chi è colpito dall’ingiustizia.

Bisogna avere l’altro nel cuore. Se tu hai l’altro nel cuore, tu non hai più barriere; se l’hai nel cuore, tu non hai più paura. Praticamente noi ci difendiamo dall’altro nella misura che noi abbiamo paura dell’altro. Ma quando abbiamo paura dell’altro? Nella misura in cui l’altro ci è estraneo.

Sono persuaso che tante distanze siano dovute soltanto ad una distanza di conoscenza e di amore. Quando io chiedo: «Chi sono i barboni?»; la gente mi risponde: «I senza casa» e via dicendo. E invece no: i barboni sono quelli che stasera non vogliamo nella nostra casa a dormire. La gente mi prende per matto perché i barboni fanno paura… ma tu non fai paura a loro? Chi sei tu? Ecco il bisogno di un cambiamento. Io lo ritengo come la chiave di tutto il nostro cammino.

Non dobbiamo essere prigionieri di schemi mentali che ci siamo fabbricati, che in realtà sono tutte difese che proteggono le caste: anche noi possiamo essere una casta protetta da schemi che ci siamo costruiti attraverso i secoli e che ci sono diventati comodi. Anche tanti richiami a forme di vita spirituale del clero possono essere travisate. Hanno un’importanza enorme perché, se tu non stai con Gesù, come fai a capire? Non capisci neanche di non capire! Capisci alla maniera umana ed allora non capisci più niente. Quindi lo stare con Gesù è vitale.
Mettere in discussione le proprie sicurezze

Il primo problema è di mettere in discussione tutte le nostre sicurezze. Io non sono a posto, anche io ogni giorno devo mettere in discussione tutte le mie sicurezze. Come ho iniziato io il cammino con i poveri?

All’inizio quando la gente veniva, io la mandavo via perché cre­devo che altri se ne dovessero occupare. Un giorno ho capito che mandandoli via, gli altri continuavano ad avere bisogno.

Allora ero io che dovevo mettere in discussione le mie sicurezze perché se io non le mettevo in discussione, l’altro continuava ad avere bisogno. È l’amore che crea l’intelligenza per cui tu riesci a stare con il Signore e nel medesimo tempo a stare con i poveri. Ripeto: la sofferenza più grande per i barboni è quella di non essere pensati da nessuno o di essere considerati male.

Un povero non è una figura ideale, un povero è un uomo come tutti gli altri che vive in condizioni particolari in cui l’abbiamo posto noi come società o in cui anche egli si è lasciato porre; molte volte la responsabilità è la sua, ma il più delle volte è la nostra.

Delle volte si incontrano dei poveri che sono talmente convinti di essere nulla che sembra quasi ti chiedano scusa di esistere. Io ne ho incontrati pochi, ma uno mi ha schiantato. Una sera alla stazione vedo un uomo: si vedeva che soffriva. Allora mi sono accostato a lui e prima di tutto egli si è meravigliato che qualcuno si accostasse a lui. Da quattordici anni era sulla strada e da un anno e mezzo aveva subito un’operazione all’intestino. Uscito dall’ospedale chi lo aspettava? La strada. Quando io mi sono avvicinato a lui, non mi ha parlato, ma semplicemente mi ha guardato come se mi volesse dire: «Ma chi sono io perché tu venga da me?»

Io non so se voi lo avete mai provato, ma in questi casi io mi sento un niente, ho voglia di cadere in ginocchio e di chiedere perdono. S. Vincenzo de Paoli dice: «Il brodo e il pane lo possono dare anche i ricchi: tu devi dare l’amore», e poi ancora: «Per il tuo amore, per il tuo amore soltanto, i poveri ti perdoneranno il pane che tu dai a loro». C’è tutta una giustizia da realizzare in questa società. Sarà bello quando non ci saranno più mense per i poveri!
Una vita “perduta” per i più poveri

Uno mi ha detto che forse la vecchiaia mi dà alla testa. Ma io rispondo che dare da mangiare agli affamati, come dice il Vangelo, anzi, imboccarli, è l’atto più bello che noi facciamo. Ma come fai ad imboccarli? O vai tu a mangiare alla mensa o li fai venire a casa tua. Vestire l’ignudo vuol dire che sei tu che devi vestirlo e non gli devi semplicemente mandare un container di pantaloni.

Ero malato e mi siete venuti a trovare… e allora ci si chiede: «Ma non basta pregare per gli ammalati?» No, devi fare qualcosa di più.

Io credo che la vita del prete sia una vita perduta, senza schemi: l’amore non ha schemi. Se non abbiamo il cuore pieno d’amore, i convegni pastorali a cui partecipiamo, ci danno solo dei principi di scienza, ma l’informazione non è formazione, è una componente della formazione; la formazione è quando tu paghi di persona, quando ci sei dentro fino al collo ed allora ti vengono in mente tutte le cose che ti sono state dette nei convegni di studio.

Esistono delle scuole di teologia molto valide, ma bisognerebbe fare sei mesi di studio e sei mesi di condivisione, altrimenti queste scuole non servono. La vita è qui: «Mi sei divenuto caro», «Ti ho dentro al cuore», questo è il motore che accende tutto.

Una volta che tu ti senti salvato da Cristo e che non hai nessuna cosa al mondo al di fuori di lui, allora senti anche il bisogno di salvare l’altro.
Come portare Cristo ai giovani e i giovani a Cristo

La presenza dei fedeli nelle parrocchie è molto bassa, i giovani che vanno in Chiesa arrivano al 5% ‑ 10%. I fatti dicono che dobbiamo evolverci, aprirci come mentalità, svecchiarci.

Perché i giovani non vanno più in Chiesa? Perché, forse, non sentono Dio? I giovani non vanno in Chiesa perché cercano Dio. E allora vi chiederete: «Perché non vanno in Chiesa?» Perché non trovano il modo di vivere. Credo che nel mondo dei giovani c’è una forte domanda di vita.

I giovani oggi non si riuniscono più attorno a delle sigle di carattere ideologico. Invece tutti i movimenti che hanno una concretezza di vita, si stanno sviluppando rapidamente perché i giovani vi trovano la vita. In mezzo ai tossicodipendenti o a strutture che evidenziano problematiche del genere, si comprende il mistero dell’adolescente.

Quest’anno nelle nostre strutture (case famiglia, cooperative, aziende agricole, soggiorni di vacanza) c’è stato un forte afflusso di giovani provenienti da ogni parte a trascorrere un periodo di dieci/quindici giorni dì vacanze alternative. Rispetto allo scorso anno, il numero dei partecipanti è aumentato.

Perché vengono? Vengono per noi? Per i fratelli della Comunità che condividono la vita con gli ultimi? No, vengono perché stando vicino a noi vedono subito i nostri difetti, i nostri limiti, i nostri peccati, le nostre stanchezze, le nostre debolezze e miserie. Allora per chi vengono? Per i poveri? Io credo di no perché a lungo andare ci si stanca anche dei poveri. E allora qual è il vero motivo per cui vengono?

Io ritengo che quando c’è una condivisione di vita 24 ore su 24 e l’altro entra dentro la tua vita, per mezzo di questa condivisione di vita si crea una condizione molto favorevole alla rivelazione di Dio. Tanti giovani vengono perché hanno sete di Dio e questa condivisione di vita crea una particolare presenza e rivelazione di Dio: i poveri sono i rivelatori di Dio.
 La famiglia del prete sono i poveri

Quando voi camminate per la strada con un cieco, voi sacerdoti, io sono convinto che la gente vi sente ed avverte che c’è un mistero, c’è la presenza di Dio. Quando voi andate a trovare un cieco e parlate con lui, la gente dice: «Guarda quel parroco, quel sacerdote come gli sta vicino, come lo ascolta, come risolve i suoi problemi»… d’altra parte Gesù ha detto: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare».

Tu puoi essere un prete brillantissimo, in gamba, giovane, puoi creare una bella atmosfera ed un bell’ambiente ma presto o tardi tutti si stancheranno di te: l’uomo non cerca te, cerca colui che tu gli porti.

Il prete è per il popolo di Dio, ma non lo sarà mai se prima non è per gli uomini e per i poveri.

Tutti i cristiani sono affidati al prete, ma in modo particolare lo sono i poveri e quindi il prete non può mai delegare ad altri la carità, l’amore verso di loro: la sua famiglia è la famiglia dei poveri, dei disperati, dei disgraziati.

Io ho notato che se il prete sta con i poveri, ti capiscono anche i ricchi, ma se tu stai con i ricchi non ti capiscono né i ricchi né i poveri. Di tutti i disperati, i rifiutati, quelli che la gente non accetta sono gli zingari. Per gli handicappati ci si commuove, i terzomondiali possono anche “passare” ma gli zingari… questi non li vogliono, li mandano via e per riuscirvi raccolgono anche le firme. È facile stare con quelli di cui si innamorano tutti, ma stare con quelli di cui non si innamora nessuno… ciò dà una certa credibilità alla gente perché la Chiesa si presenta come regno di giustizia, di verità e di amore, perché la Chiesa si presenta come popolo che non lascia indietro nessuno. La Chiesa si presenta come famiglia, ma che famiglia è se non si accorge che c’è qualcuno che non riesce a mangiare mentre tutti gli altri banchettano tranquillamente? Tu non puoi dire: «Io lavoro per loro», tu devi essere con loro.
Contemplativi nel mondo

Nello Schema di vita della Comunità Papa Giovanni XXIII io dico ai miei fratelli: «Siate contemplativi nel mondo». Sa stare con il povero chi sa stare con il Signore. Per stare in piedi, io dico ai miei fratelli, bisogna stare in ginocchio.

Nelle nostre comunità terapeutiche, in ogni nostra struttura, abbiamo sempre una cappella e quindi possiamo “tenere” Gesù e celebrare l’Eucaristia: la presenza del Signore conta moltissimo. Per me la conclusione di tutto ciò è questa: vita vissuta con il povero uguale a vita vissuta alla presenza di Dio.

Credo che la vita del prete sia questa: ogni volta che torni a casa, vai a riferire al Signore come sono andate le cose ed ogni volta che esci dalla chiesa vai a riferire ai fratelli qual è il cammino con il Signore.

In fondo quello che ti chiedono è il Signore, vogliono vedere Cristo e nel medesimo tempo si ricostruisce la comunità cristiana. Non ci si può limitare a mettere la propria spalla sotto la croce del fratello e dire: «Non sei più solo, guarda, siamo insieme», ma bisogna anche dire a chi fabbrica le croci che la smetta di fabbricarle: la rimozione delle cause è fondamentale. Io mi trovo sempre fra quelli che fabbricano le croci.
La giustizia anzitutto

Tu non puoi dare da mangiare all’affamato e nel medesimo tempo andare allegramente a braccetto con chi ha fame. Non puoi dire soltanto: «Alloggia il pellegrino», ma devi anche chiedere che siano costruite le case. I nostri vescovi nel documento La Chiesa italiana e le prospettive del paese (purtroppo quei documenti a volte vanno a finire nel cassetto, io li tiro sempre fuori e li ho in mostra affinché mi ricordino certi concetti) dicono di non stare a guardare dalla finestra. Bisogna rimuovere le cause che producono il male, come è anche stato ribadito da Paolo VI: «Non puoi dare per carità ciò che devi dare per giustizia».

Io sono stato sempre d’accordo con il mio vescovo. Io ho partecipato a ben sette occupazioni. È indispensabile agire in comunione con il proprio vescovo.

A chi mi ha chiesto se ho mai trovato difficoltà con il mio vescovo io rispondo: «Chi ti può impedire di amare? Chi ti può impedire di sacrificarti? Qual è il vescovo che ti impedirà mai di essere povero e vicino ai poveri e fare il loro cammino? Chi ti impedirà di pregare? Chi ti impedirà mai di consumare la tua vita per loro?»

Io non ho mai trovato grosse difficoltà; magari qualche discussione, ma, pur avendo avuto tre diversi vescovi, abbiamo sempre agito di comune accordo.

Io credo che nella via dell’amore ci sono tanti spazi. Credo che il brutto sia mettersi a discutere sul sesso degli angeli e quanti angeli stanno in una cruna di ago; se si va fuori dalla vera dottrina, è giusto che intervengano, ma sul piano della povertà, della accoglienza, del dono di te, chi ti può impedire di fare questo?

La Chiesa ha bisogno di questo, non ha bisogno di discussioni. Ripeto: noi diamo molta importanza alla rimozione delle cause.
L’unica regola: la carità

Qual è il posto del prete in una Chiesa chiamata a vivere la carità? È quello di essere colui che precede l’amore. Il Cardinale Journet diceva che quanto più prolifica il diritto tanto più si spegne l’amore. È un indice: quante più regole si fanno, tanto più vuol dire che si litiga. Perciò: quanto più si ama, tanto più le regole salteranno per aria perché il cristianesimo non è un insieme di idee, ma è una persona, Gesù Cristo!

La vita cristiana non è un insieme di regole; non ce n’è neanche una, lo dice S. Paolo, c’è un modo di essere; è l’amore di Gesù, non l’amore umano che facilmente porta a prendere nell’altro l’affetto che fa piacere a noi. È l’amore di Gesù che invece è creativo e muore perché l’altro abbia la vita. Noi siamo chiamati su questa strada.

Io vedo che amando si crea una fraternità fra sacerdoti che è bellissima; quando invece si fanno discussioni, ci si divide sempre in partiti, quando invece si raccontano le proprie esperienze, le proprie gioie, il proprio cammino in mezzo ai piccoli ed ai semplici si diventa semplici perché c’è la gioia, c’è il far famiglia.

Far famiglia vuol dire che tu non ti appartieni. Io non dico vengo a casa tua; dico vengo a casa mia perché la tua casa è la mia casa e la mia è la tua.

Io credo che questa è l’epoca della Chiesa.