MESSA COMUNITARIA DEL 01/12/1984 – 1A DOMENICA DI AVVENTO, ANNO B

Fratelli miei, invochiamo insieme lo Spirito Santo perché apra i nostri cuori al rapporto che è già dentro di noi col Signore, perché possiamo siamo veramente liberi. Possa il Signore darci la conversione del cuore: è il dono più grande che possiamo ricevere.

Oggi è la prima domenica di Avvento, siamo nei primi vespri e iniziamo l’anno liturgico, anno che si inizia e si conclude con un richiamo alla vigilanza. Anzitutto però, all’inizio dell’Avvento, all’inizio della venuta di Cristo, ci sta Maria; è lei la prima persona che incontriamo nella storia della venuta di Cristo su questa terra. È a lei che il Signore si è rivolto chiedendole la cooperazione in maniera singolare e totale. Cerchiamo allora di penetrare nell’animo di Maria perché anche noi possiamo essere disposti al Signore che viene. È proprio Maria che ci fa capire come noi dobbiamo vegliare. È il grido che ci viene dal Signore: «Vegliate!» (Mc 13,37). L’avete sentito ripetuto più volte: vegliate, vegliate per il Signore che viene, siate vigilanti!

Cosa vuol dire essere vigilanti? Vuol dire essere dentro la realtà, vuol dire essere dentro la concretezza dell’esistenza; ma l’esistenza è concreta solamente e unicamente in Dio, in Lui è concreta in pieno. Al di fuori di Lui si hanno soltanto degli aspetti dell’esistenza, ma proprio perché sono degli aspetti non possono rispondere a quello di cui noi abbiamo veramente bisogno. Solo in Dio noi abbiamo il senso del tutto e il significato dell’esistenza.

Vegliare dunque vuol dire essere svegli, cioè essere addentro la realtà. Allora il vegliare è un richiamo prima di tutto a guardare dentro di noi e a vedere quali sono le realtà che sono dentro noi stessi alle quali dobbiamo essere presenti. È un guardare alla realtà dei nostri fratelli e un essere presente alle realtà dei nostri fratelli, è un guardare alla realtà della storia di Dio, dell’oggi di Dio, che è storia che si snoda attraverso i secoli che però è un eterno oggi in cui Dio viene. Quindi un vegliare ed un essere presenti dentro la storia.

Non si può essere presenti a Dio se non si ha dentro di noi tutta la presenza ai nostri fratelli. Vegliare dunque è un entrare dentro la realtà della Chiesa, ossia un riappropriarsi consapevolmente, coscientemente di quello che noi siamo nel Signore. Vegliare quindi è lasciarci possedere dalla pienezza di quello che Dio ha operato dentro di noi. Affinché possiamo vegliare, quindi, prima di tutto dobbiamo avere una profonda umiltà. Perché?

Finché noi, e lo sentiamo tutti, siamo pieni di noi stessi, non c’è posto per Iddio. Finché noi siamo pieni di noi stessi siamo divorati dalle nostre ansie, dalle nostre preoccupazioni, dalle nostre angosce, dalle nostre tristezze. Perché avviene questo? Perché in fondo noi ci incontriamo con delle cose che chiamiamo “nostro bene”, bene immediato. Per questo ogni paura di perdere questo bene, ogni difficoltà a raggiungerlo, ogni minaccia che percepiamo verso quello che noi riteniamo bene, ecco che ci mette nell’ansia, nell’angoscia.

Ma questi beni non sono beni: l’affermazione personale, il bisogno della stima altrui, il bisogno di essere approvati dall’altro, il bisogno di sicurezze materiali su cui poggiare la nostra sicurezza, il bisogno di avere il supporto dell’altro in senso male inteso, siccome sono tutte cose labili e fuggevoli, ecco che ci mettiamo continuamente nell’angoscia, nella paura, nell’insicurezza. Da qui allora il grido che irrompe dall’animo che è diventato umile e ha capito che in queste cose non c’è la vita, non c’è la pienezza: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63,19).

È il grido presente in ogni uomo, in tutta la storia dell’uomo, è il grido della liberazione: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te – una volta presente – sussulterebbero i monti. Tu vai incontro a quanti praticano la giustizia e si ricordano delle tue vie». Ecco il grido forte: «Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie?»; l’uomo che ha capito l’essenza di tutta l’esistenza, come ci indica bene la nostra vocazione: fare soltanto ciò che piace a Lui, da noi stessi non fare nulla ma solo quello che è la sua volontà.

«Perché ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?». I nostri occhi sono ciechi e non vedono più la nostra salvezza: «Ritorna per amore dei tuoi servi». Ecco, tu ti immagini già in ginocchio di fronte a Dio e senti il grido che esce da te: «Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità». Ritorna, o Signore, dentro di noi!
Perché più andiamo a fondo dentro di noi, più avvertiamo tutta la vanità dello spendere la vita per ciò che non vale: spendere il nostro denaro per un pane che non sazia, consumare la nostra vita per un qualcosa che non paga nulla. E allora il grido: “Se tu squarciassi i cieli, Signore! Liberami dal mio peccato, liberami dalla mia vanità, ritorna Signore, ritorna in mezzo alla tua eredità!”.

Il primo atto allora è un atto di umiltà, come Maria: «Egli ha guardato la bassezza della sua serva» (cfr. Magnificat, Lc 1,46-55). Appena dai tuoi occhi sono cadute le cataratte e tu hai riconosciuto ciò che vale, allora hai capito che il Signore ti visita, ti viene a trovare, viene da te. Da qui l’intuizione profonda di Maria: «Cose grandi ha fatto in me colui che è potente».

E dopo aver riconosciuto la vanità, ecco il grido dentro di te: “Che cose grandi Tu, o mio Dio, hai fatto dentro di me”. Ma queste parole tu le puoi dire nella misura in cui sei libero. Non avevo mai capito come in questi ultimi tempi queste parole di Maria: «Cose grandi ha fatto in me colui che è potente»! Lo poteva dire lei perché era totalmente umile, aveva capito la bassezza dell’essere serva ed ora era libera, libera. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio», beati quelli che hanno un cuore pulito perché vedranno il Signore.

E allora Maria poteva contemplare dentro di sé le cose che Dio aveva fatto, perché aveva capito profondamente che al di fuori di Lui lei era un nulla. Questa è l’umiltà, è l’esaltazione profonda di quello che è Dio e ciò che opera in noi: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio Spirito esulta in Dio, mio Salvatore, perché cose grandi ha fatto in me colui che è potente».

Vegliare allora è riconoscere le cose grandi che Dio ha fatto dentro di noi, è riconciliarci prima di tutto con noi stessi, cioè riappropriarci delle cose grandi che Dio ha fatto dentro di noi. Sì, fratelli miei, è così! Per te, fratello mio che sei sposato, significa capire le cose grandi che ha fatto Dio dentro di te perché Egli ha voluto modificare il tuo amore rendendolo capace di essere santo, fedele fino a dare la vita, purificante, santificante. Allora tu ti riappropri di questa realtà e ubbidisci ad essa; e in questo modo diventi finalmente libero da te stesso, perché brami di compiere la sua volontà.

L’umiltà, la contemplazione di quello che Dio opera in noi, dà come logica conseguenza l’obbedienza, l’obbedienza ad un dono che è prima di te e quindi butti subito via la boria umana, il senso dell’onnipotenza umana che poi è meschina e ridicola e ti riappropri dell’infinito di Dio. Entri nell’obbedienza: quanto è stupenda la nostra vocazione che ci chiede di essere servi, quindi obbedienti proprio perché servi. Non ci sarebbe servizio senza obbedienza, come è impossibile l’essere padroni e servire, sono due cose antitetiche, come è impossibile servire e disobbedire, sono cose antitetiche. Allora nella misura in cui ti riappropri di quello che Dio ha fatto dentro di te, tu diventi obbediente. Non devi dire: “Io mi sono sposato”, ma devi dire: “Il Signore mi ha unito a mia moglie, a mio marito, perché noi due fossimo obbedienti a quanto Egli ha operato dentro di noi”.

A te fratello mio, sorella mia,  che vivi nella casa famiglia: il Signore ti ha dato di incarnare la fedeltà a Cristo, la conformità a Lui; quindi riappropriati di quella realtà che ha operato dentro di te e diventerai servo del Signore, servo di quella realtà e servo dei figli come voi genitori siete servi dei vostri figli e non padroni, altrimenti non li potreste portare a Dio e il vostro impegno sarebbe vano. Così tu nella casa famiglia sei servo del Signore Gesù e servo delle creature che Egli ti ha dato e delle quali tu condividi l’esistenza.

Tu, fratello mio che sei nella professione, ti devi riappropriare di quella che è la tua vocazione dentro la professione; allora diventi obbediente a quella vocazione nella tua professione e sei vicino a coloro ai quali il Signore ti ha messo accanto. Ma ciò è impossibile se tu non contempli la meraviglia di Dio che ti ha chiamato a cooperare con Lui, ad essere unito a Lui. È impossibile che tu possa attuare quello che Lui ti dà da compiere se non diventi servo e obbediente della realtà nella quale Lui ti ha messo.

Tu, sorella mia che vivi in un’istituzione educativa, tu che vivi in un ospedale lavorando, tu che vivi nel commercio, ovunque sei, tutto è stoltezza se tu non ti riappropri di quello che Dio ha operato dentro di te: la conformità a Lui. Vivi quella conformità laddove ti trovi, riconciliarti con te stesso e contempla il dono di Dio, della vocazione che ti ha dato, del sacramento che hai ricevuto, dell’essere inserito dentro di Lui. È meraviglia, è meraviglia… Sì. contemplate le grandezze di Dio!

Passeranno tutte le paure, le paure che vengono a te perché non sei redento, perché non riconosci che il Signore ti ha visitato e ancora la tua persona ha troppo peso in un modo di esistere che è stato dato dall’uomo, che ti è stato imposto da una cultura di trionfalismo, di affermazione e basta. Oh, come il Signore ti viene a liberare perché ti rende obbediente a quello che Lui ha creato dentro di te!

Ecco fratelli miei, la triplice via dell’Avvento sta in questo: il grande atto di umiltà, riconoscere il limite della nostra persona, la serena visione del nostro limite che immediatamente ti fa contemplare Dio che ha operato in te.

Poi la contemplazione delle meraviglie che Dio ha operato dentro di te e ne hai davvero tante da scoprire, tante! Come un figlio deve scoprire tutto il suo rapporto col genitore, allo stesso modo tu devi riscoprirlo col Padre; ecco perché la vita è contemplazione e mentre tu scopri la realtà meravigliosa di Dio, tu ti metti nell’obbedienza e finalmente cessa in te quel modo di esistere da padroni che rovina tutta la storia umana.

Allora tu vai a riappropriarti di tutto, a riappropriarti di quello che è il senso della partecipazione sociale, di quello che è vivere nella storia; diventi finalmente un adoratore del Dio vivente e insieme con Lui operi dentro la storia. Ecco la riconciliazione con noi stessi, la riconciliazione con i fratelli, la riconciliazione col mondo; e la riconciliazione diventa prima di tutto riparazione, perché non c’è un peccato del nostro fratello di cui noi non siamo responsabili. Tutti noi partecipiamo infatti, al di là di avere o meno il dono fede, di questa organizzazione umana da cui riceviamo dei benefici che strappiamo agli altri. È proprio da come è organizzato il nostro mondo che viene il pianto e la sofferenza di molti, per cui non esiste un peccato del tuo fratello che non sia anche tuo, tant’è vero che tu se non avessi nemmeno un peccato tuo da confessare, tu potresti  andare a confessare i peccati dei tuoi fratelli della Comunità, perché non c’è un peccato del fratello che non sia anche tuo.

Si potrebbe spiegare ancora meglio se il tempo ce lo permettesse, ma ti dico soltanto questo: guarda, quando vedi un fratello che ti fa violenza chiediti prima se tu gli hai fatto violenza; quando vedi un fratello che lotta contro di te chiediti prima perché tu lo hai fatto lottare contro di te; quando il fratello è lontano chiediti se tu ti sei allontanato da lui. Tutti abbiamo peccato, non esiste il giusto; come dice la Parola di Dio: «Il giusto pecca sette volte al giorno» (Pr 24,16). Tante volte io ho pensato a questa verità e mi chiedevo dove era il peccato, perché poteva pur esserci un giorno senza peccato! Poi ho capito: non esiste un giorno senza peccato, perché laddove l’uomo pecca anch’io pecco dentro di lui; la solidarietà umana sta in questo. È vero: ci si salva insieme, ci si perde insieme… quante cose noi abbiamo da capire!

Allora vegliare vuol dire riconciliarci col Signore che ci ha dato tutto, ci ha messo in realtà stupende e ci ha resi presenti alla storia. Così l’esistenza diventa una cosa gioiosa perché seria, perché impegnata, perché è nel tempo. A ciascuno il suo compito, dice il Signore, ed Egli viene in ogni momento. La vita non è altro che un incontro continuo con Lui che viene, perché in ogni momento Lui mi chiede di uscire da me, di riappropriarmi dei suoi doni, di viverli fino in fondo e di obbedire ad una realtà che mi precede.

Tradotto in pratica ai fratelli che sono nella vocazione io vi dico: mai come nell’Avvento dovete prendere lo Schema di vita in mano e rileggerlo nella luce dello Spirito secondo l’originalità di grazia di ognuno e poi vedere come obbedire a quella realtà. Ognuno di noi deve riallenare se stesso come in una palestra; allora finalmente capiremo che così usciamo dalla vanità e il risultato sarà stupendo perché sarà un volerci bene, come risultato, come dono.

La riconciliazione in fondo, oltre che essere una conquista, è il grande dono. Mai come in questo periodo dell’Avvento dobbiamo riappropriarci di quelle indicazioni di vita e verificarle in noi: piangere il nostro peccato, capire la nostra vanità e diventare obbedienti. A voi fratelli che siete sposi, dico che mai come in questo momento, nelle famiglie dove siete, nella professione dove siete, mai come in questo tempo dovete diventare contemplativi di Dio e riappropriarvi dei doni di Dio. Questo è vegliare.

Allora l’Avvento non sarà più la commemorazione di un fatto storico avvenuto, come capita molte volte a noi cristiani. Noi ricordiamo la morte di Cristo, anziché portare i frutti della Redenzione e là dove c’è un fratello che piange, che grida: “La redenzione non è ancora arrivata” non facciamo le commemorazioni di Cristo ma viviamo il Cristo presente nella storia e portiamo i frutti della redenzione! Non facciamo la commemorazione del Natale, piuttosto invece lasciamoci possedere da Cristo che viene, da Cristo che fa la storia.

L’esistenza cristiana non è un insieme di ricordi richiamati alla mente, si capisce che si fa memoria ma è una memoria attiva, presente, che ti lega al fatto e ti sconvolge, ti fa progredire. Ecco fratelli miei, non tanto il ricordo della nascita di Cristo, quanto piuttosto l’accettazione di Cristo che nasce dentro di noi.


Messa Comunitaria Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
Parrocchia La Resurrezione, Rimini – sabato 1 dicembre 1984
Omelia di don Oreste Benzi
Letture I domenica di Avvento – Anno B
Is 63,16b-17; 64,1-3b-8; Sal 79; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37